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Vespro di Santa Cecilia - con 2 cd

Revisore: Poensgen, Scipioni, Jans
  • Casa editrice: ACCADEMIA NAZ SANTA CECILIA
  • Compositore: Scarlatti, Alessandro
  • Codice di riferimento: 34506
  • Codice catalogo: ANSC013
  • ISBN: 9788895341422
35,00 €
Tasse incluse

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Compositore.

La vita. Una tradizione non convalidata da documenti vuole che sia stato allievo di Carissimi a Roma, dove si era trasferito giovanissimo con alcuni membri della famiglia. Iniziò l'attività di compositore, a quanto risulta, nel 1679 (vale a dire l'anno dopo il matrimonio, dal quale, oltre al grande Domenico, nacquero altri nove figli), facendo rappresentare a Roma la sua prima opera, Gli equivoci nel sembiante. Seguì un'attività prodigiosa e senza soste; dopo esser stato al servizio di Cristina di Svezia, nel 1684 si stabilì a Napoli come maestro di cappella reale. A Napoli fu attivo sino al 1702, producendo ben 35 melodrammi e un'infinità di brani d'occasione. Fu poi, col già più che promettente figlio Domenico, a Firenze, dove contava di entrare al servizio del granduca Ferdinando iii de' Medici; ma, non avendo ottenuto nulla di concreto, nello stesso anno si trasferì a Roma, subito assunto come vicemaestro di cappella in Santa Maria Maggiore e ammesso nel 1706 fra i membri dell'Accademia dell'Arcadia. Ma non aveva perso le speranze di ottenere una sistemazione presso i duchi di Toscana, tanto è vero che continuava a scrivere opere per il teatro di Pratolino, fatto costruire da Ferdinando nel 1697. Dopo vari tentativi infruttuosi di essere esaudito, e dopo viaggi a Venezia e a Urbino, nel 1708 decise di trasferirsi a Napoli in qualità di maestro di cappella. Nuovamente a Roma nel 1717, quattro o cinque anni dopo prese definitiva dimora nella città partenopea, praticamente inattivo come compositore e, nonostante il prestigio di cui godeva, tagliato fuori dalle nuove correnti musicali.

Il contributo esemplare allo stile operistico fra xvii e xviii secolo. Massimo rappresentante della scuola «napoletana», S. dominò magistralmente il melodramma e la cantata da camera nel momento della loro massima espansione, ma lasciò una traccia profonda anche nella musica sacra (o spirituale in genere) e nella musica strumentale. La sua è la figura di maggior statura nell'opera teatrale italiana del periodo compreso tra Monteverdi e Rossini; 65 drammi per musica, 10 elaborazioni o aggiunte a opere di altri autori, 3 pasticci, testimoniano il suo impegno e l'importanza della sua presenza. Le formule stereotipate, le concessioni alla moda, l'astratto schematismo delle situazioni drammatiche sono riscattate, nelle sue opere, da un linguaggio musicale sempre nobile ed elegante, solido veicolo per le colorature espressive e i preziosismi canori degli interpreti, che a quell'epoca erano i veri dominatori dell'opera teatrale, ma anche la ragione prima del suo successo. La celebre satira di Benedetto Marcello sul Teatro alla moda (1720) ci porta oggi a considerare con occhio prevenuto quel tipo di teatro regolato dai cantanti, così lontano dai nostri ideali estetici. Ma a esso occorre guardare come a una forma di artigianato collettivo, come a un meccanismo complesso e a suo modo perfetto che nasceva dal coordinamento di competenze e di abilità diverse, capaci di adattarsi a ogni mutare delle circostanze. Trascurando le prime realizzazioni per i teatri romani (per i quali S. scrisse melodrammi commisti di elementi tragici e comici o opere decisamente comiche, come Tutto il mal non vien per nuocere 1681), è nei diciotto anni della permanenza a Napoli che il musicista forgiò un proprio stile e plasmò quel tipo di opera che sarà poi definita «napoletana». Se la Olimpia vendicata (1685) non è ancora immune da influenze romane, La Statira (1690) e prima ancora, parzialmente, Rosmene (1686), offrono una maggior varietà di atteggiamenti, specialmente nel trattamento dell'aria, quasi sempre realizzata nella forma «col da capo» (destinata a caratterizzare la vocalità del primo Settecento, non solo nel melodramma ma anche nell'oratorio e nelle cantate). L'elemento melodico resta comunque semplice, adagiato su ritmi per lo più languidi, con spunti anche popolareschi. Un diverso stile operistico sembra imporsi con La caduta dei decemviri (1697), in cui ormai la forma dell'aria col da capo è pervasiva, il recitativo è prevalentemente secco (quello accompagnato essendo riservato a poche situazioni fortemente drammatiche) e la sinfonia di apertura è articolata in tre sezioni: un allegro iniziale, cui segue un breve adagio che fa da ponte a un altro allegro conclusivo, sovente in ritmo di danza (anche questa tripartizione dovrà fare scuola nello sviluppo delle forme strumentali italiane). L'elemento veramente interessante, a ogni modo, è l'aria, sulla quale il musicista concentra tutta la propria abilità e nella quale si esaurisce la funzione stessa del dramma; intervengono talvolta i duetti, i terzetti, i concertati; uno di questi, il finale del Prigioniero fortunato (1698), è a sette voci. Delle opere seguenti, le più importanti (riprese anche ai giorni nostri) sono Il Mitridate Eupatore (1707), Il Tigrane ovvero L'egual impegno d'amore e di fede (1715), che reca alcuni ruoli buffi, Telemaco (1718), Il trionfo dell'onore (1718), commedia semicomica, Marco Attilio Regolo (1719) e soprattutto La Griselda (1721), che è l'ultima fatica teatrale di S.

 

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